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Entrare a Olde Vechte significa essere pronti a cominciare una storia. E come ambientazione, la nostra storia non poteva iniziare in un luogo migliore: lo Youth Exchange a cui abbiamo preso parte si è svolto letteralmente all’interno di una casa nel bosco situata ad Ommen, un paesino nel cuore dell’Olanda. I personaggi del nostro percorso di formazione sono giovani provenienti da nove paesi europei, con età e background differenti, ma tutti allo stesso modo affamati di storie e desiderosi di imparare a fare la differenza per rendere le nostre città, ovunque esse siano, dei luoghi più inclusivi. Il doppio tema del nostro soggiorno, infatti, si intitolava: “Storytelling and social inclusion” . Giorno dopo giorno abbiamo imparato che “storytelling could be everything”: da un poema a una canzone da un romanzo a dei passi di danza, ma il fascino e la potenza di quest’arte, abbiamo scoperto, risiede soprattutto nel fatto che riguarda anche performance non strettamente artistiche: l’elemento principale nello storytelling è, infatti, letteralmente “la narrazione di una storia“. E all’interno di Olde Vechte ognuno ha portato la sua storia e molte ne sono nate perché lì ogni cosa è stata condivisa: dai workshop alla pulizia degli ambienti ai pasti in tavola: tutto è stato possibile solo grazie a un lavoro di squadra quotidiano. Durante il nostro Youth Exchange, lo storytelling è andato di pari passo con l’esplorazione delle diverse sfaccettature dell’inclusione sociale, il cui obiettivo e’ quello di eliminare qualunque forma di discriminazione all’interno di una società, ma sempre nel rispetto della diversità. L’esclusione sociale non è un problema lontano. La povertà non risparmia nemmeno l’Europa, dove il 24 per cento della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. Le categorie maggiormente e rischio sono i bambini, gli over 65 e quasi il 10% delle persone che hanno un lavoro. Questo in Europa. Nei Paesi del sud del mondo, la situazione è ancora più grave. In molti paesi africani le donne non hanno diritto a niente. Non possono lavorare né possedere la terra. Spesso subiscono violenza psicologica e/o fisica. Per loro, la realtà di tutti i giorni è fatta di discriminazione. In generale, i motivi che possono portare all’esclusione sociale sono diversi: razza, sesso, cultura, religione, disabilita’. La discriminazione per uno di questi motivi può avere luogo in ambito scolastico, lavorativo, politico, sociale. Ad Olde Vechte, attraverso lo storytelling, di questo abbiamo parlato ed ascoltato. Di come un uomo nel corpo di una donna debba essere considerato una persona. Di come un ragazzo che ha deciso di camminare scalzo per strada, debba essere considerato persona. Di come un obeso in una societa’ che quasi spregia ogni imperfezione fisica , debba essere considerato persona. Di come un rom, all’ interno di una comunita’ “bionda ungherese” debba essere considerato persona. Di quanto, in primis, siamo tutte persone. C’e’ tanto da fare. Noi tutte e tutti, perlomeno, ne siamo consapevoli. Dopotutto, sta tutto attorno a lei: la consapevolezza che il mondo é bello perché é vario e chiunque merita la giusta gentilezza e cura.
E così abbiamo imparato alla Olde Vechte ad apprezzarci come persone, nelle nostre bellissime differenze; ma come ogni storia che si rispetti non è mancato il momento di “plot twist”: durante il soggiorno è stata purtroppo annunciata la pandemia di covid 19 che ha causato non poche preoccupazioni e sconvolgimenti. Essere un gruppo significa però anche far fronte agli imprevisti e reagire insieme per trovare una soluzione. Dopo litri di tisane, molte conversazioni in cerchio sul tema e ore spese al cellulare in cerca di piani B, siamo riusciti a venirne fuori, rinunciando, tuttavia, in molti casi alla performance finale. Chi è potuto rimanere per quegli ultimi due giorni, ha assistito alla performance finale, una variopinta celebrazione di comunità. Quella che doveva essere fulcro e obiettivo, in un certo senso, di tutto il progetto; per quanto, purtroppo, colpita dall’emergenza e perciò ridimensionata in luogo e persone. É stata una meravigliosa sfilata di volti e identità, una perfetta e, tanto umana quanto combattuta, somma o ritratto di quel groviglio di umanità che per 10 giorni si è riunita sotto la bandiera dell’inclusività e della diversità. Non poteva esserci conclusione migliore per quella famiglia variegata amante del genere umano. Ogni partecipante assente fisicamente è stato profondamente parte dell’evento, nella sua appartenenza alla famiglia ognuno era manifesto in ogni esibizione e in ogni ultima conversazione. Sotto il segno dell’arte tutti siamo riusciti a “spogliarci” e in ogni esibizione c’era qualcosa di quella precedente e quella successiva: un filo conduttore, una passione intensa, che ha dipinto un mondo multiforme e consapevole. Abbiamo utilizzato linguaggi diversi; chi il canto, chi la danza, chi il racconto: da performance sperimentali ad esibizioni più convenzionali, tutti abbiamo rappresentato e indagato noi stesse e tramite noi stesse tutta l’umanità che conteniamo. Le tematiche d’inclusione discusse durante il progetto sono affiorate nello spettacolo, in parte con un certo proposito di sensibilizzazione e messa in evidenza, ma soprattutto per necessità: poteva infatti essere percepito, in tutte le esibizioni, un profondo bisogno di rappresentarle, ballarle, urlarle, cantarle. Ed è stato potente vedere come i partecipanti e le partecipanti siano riuscite a rivelarsi e rendersi vulnerabili di fronte agli altri, condividendo storie e sentimenti profondamente personali, segno di una comunità che, in 10 giorni, è riuscita a valorizzare ed ascoltare ognuno dei suoi membri, farli sentire accolti e rappresentati.
Creare una storia pone spesso delle difficoltà, trovare la storia, iniziare. Come ogni inizio spaventa, fa paura. Il foglio può restare bianco. Le idee si affollano. Paura di condividere, del giudizio altrui. Ancora più difficile è crearla con qualcuno o qualcuna che hai appena conosciuto. Eppure, la comunità che è protagonista di questa storia ci è riuscita. Ha saputo creare connessioni, trovare punti in comune, superare le barriere linguistiche. Impegnarsi nel trovare quello spazio e tempo che potenzialmente può generare qualcosa di nuovo e inaspettato. Durante quei giorni, in cerchio, si è generato un gruppo. Identità singole unite semplicemente per scambiarsi idee, sentimenti, intenti. Le somiglianze si sono rincorse come un treno che parte e accelera. Si susseguivano collegamenti ed entusiasmi. Incroci di affinità e metafore.La metafora delle nostre vite ci ha guidato nel conoscerci e nell’approfondire questioni non profondamente esplorate; uno fra tanti il tema della salute mentale e dello stigma. Partendo da una storia vera condivisa da una persona, le ramificazioni sono giunte ad una performance. La fotosintesi della creazione ha sfociato in uno spettacolo. L’inclusione nella scrittura creativa è un processo senza fine, ciclico. Toccare temi interconnessi vivendo questo processo inclusivo , sicuramente ci ha portato a vivere un’ esperienza complessivamente unica.
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